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Rifiuti: un quadro normativo sulla gestione

Al contrario di molto tempo fa, ad oggi si producono molti più rifiuti (basti pensare agli imballaggi che possiamo trovare sui beni di prima necessità acquistati al supermercato).

Al fine di garantire una corretta gestione dei rifiuti prima il legislatore europeo, poi il legislatore italiano sono rispettivamente intervenuti in questo settore di riferimento.

In virtù di questo oggi i rifiuti si dividono in due macrocategorie, i rifiuti urbani e i c.d. rifiuti speciali (derivanti da alcune attività economiche).

Al livello europeo la normativa di riferimento è la direttiva n. 98 del 2008 del Parlamento europeo e del Consiglio. A questa più “generica” se ne aggiungono altre che si occupano, invece, di particolari categorie di rifiuti.

Questi interventi si collocano nel solco della transizione verso la Circular Economy, così come promossa e prevista dalla normativa europea.

La gestione dei rifiuti al livello nazionale viene, invece, prevalentemente disciplinata dal decreto legislativo n. 152 del 2006, il c.d. Testo Unico Ambientale (o T.U.A.) così come modificato dal d.lgs. del 3 dicembre 2010 n. 205.

All’interno di tale documento si trova, infatti, la parte IV del codice che tratta la gestione dei rifiuti. Tale parte è suddivisa in due categorie, una parte generale e una c.d. speciale. Oltre a ciò, negli ultimi anni, al verificarsi di situazioni di necessità e di urgenza, si è comunque deciso di fare riferimento a fonti atipiche come potrebbero essere le c.d. ordinanze di necessità e di urgenza.

Ai sensi dell’articolo 183 comma 1 lett. a) T.U.A. per rifiuto deve intendersi “qualsiasi sostanza o oggetto di cui il detentore si disfi o abbia intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi”.

All’interno di tale definizione possono rinvenirsi due componenti, una di natura c.d. oggettiva “qualsiasi sostanza o oggetto” e una di natura c.d. soggettiva “di cui il detentore si disfi o abbia intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi”.

Questo deve differenziarsi dal c.d. “sottoprodotto” che, invece, deve intendersi come “qualsiasi sostanza o oggetto che sia originato in modo secondario da un processo di produzione e che possa essere utilizzato, senza alcun particolare trattamento, nel corso dello stesso o di altro processo di produzione”. Dunque, il sottoprodotto può anche essere utilizzato in un processo di produzione successivo e non deve necessariamente essere utilizzato dal produttore stesso ma anche da terzi (articolo 184-bis del d.lgs. n. 152/2006).

All’articolo 184-ter T.U.A., invece, si dà la definizione di un’ulteriore categoria terminologica-giuridica, vale a dire il c.d. “end of waste.

In questo caso si indica un rifiuto che, allorché sottoposto ad una operazione di recupero, non comporti impatti negativi né sull’ambiente né sulla natura umana. Tra le attività di recupero può intendersi anche il riciclaggio ed un esempio tipico di “end of waste” è la bottiglia in vetro riciclato.

La differenza principale che esiste dunque tra il sottoprodotto e l’end of waste consiste nel fatto che il primo non è mai divenuto effettivamente un rifiuto mentre il secondo sì.

Ad oggi la tendenza principale dal punto di vista normativo (e anche, un passo alla volta, culturale) sta diventando sempre di più quella volta a prevenire la formazione del rifiuto.

Per quanto attiene la gestione del rifiuto, dunque, tra le varie azioni che possono essere intraprese, solamente l’ultima chance deve essere destinata al c.d. smaltimento.

In primis deve essere data priorità alla prevenzione intesa come evitamento diretto della produzione del rifiuto. Alla base di questa linea guida vi è il principio secondo il quale meno prodotti vengono immessi in commercio, meno rifiuti vengono successivamente prodotti.

Altre misure di prevenzione meno drastiche rispetto alla non produzione sono state individuate nella tassazione dei prodotti che possono essere ritenuti dannosi per l’ambiente o, ancora, azioni di informazione del pubblico o di produzione di prodotti che diventano rifiuti il più tardi possibile.

In ogni caso, in generale, la gestione dei rifiuti è basata sull’assunto “chi inquina paga”.

Sulla base di questo presupposto trova applicazione concreta la c.d. T.A.R.I., di prerogativa comunale, che obbliga al pagamento di questa tassa chiunque possieda o detenga (vale anche per le locazioni) a qualsiasi titolo dei locali.

Seppur calcolata in maniera presuntiva e forfettaria, la T.A.R.I. rispetta indirettamente il principio “chi inquina paga” poiché è commisurata e proporzionata alle dimensioni dell’immobile in questione e al numero di soggetti che vi risiedono.

Un altro esempio concreto dell’applicazione del principio “chi inquina paga” consiste nell’istituto della “responsabilità del produttore” secondo il quale inquina di meno il produttore che si riappropria del bene a fine vita.

Per quanto attiene il complesso di soggetti che sono preposti all’organizzazione nella gestione dei rifiuti, il T.U.A. prevede una serie di stakeholders (tra cui, a titolo esemplificativo e non esaustivo, Ministero dell’Ambiente (oggi M.A.S.E.), le regioni, le società che in concreto provvedono alla raccolta e allo smaltimento dei rifiuti, etc.

Tuttavia, giova ricordare che soggetti fondamentali per attuare una corretta gestione dei rifiuti (e il riciclaggio) sono i cittadini e le attività economiche che quotidianamente devono dare un apporto personale in materia di rifiuti e differenziazione degli stessi.